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Sgigolò.
Poi la domenica sera andavamo in balera. Solo se tenevi i cinque franchi ti facevano entrare. Ah gli svizzeri erano precisi per davvero, ghe n’era mia di bale. E si andava solo di domenica, caro mio, mica come adesso. Acqua di colonia e una mezz’oretta a piedi per arrivare al posto giusto.
.Chissà come puzzavi quando arrivavi.
Te belò, a quei tempi non ci si guardava mica a quelle cose lì, si era tutti così: signori con le brache di tela. Comunque te arrivavi lì ed entravi prima in ‘sto atrio che era sempre pieno di fumo e c’era uno, uno sempre alla moda, che se gli davi la mancia ( du sghei eh, pensa mia che ghe regalaè chisà cos’è) ti teneva il capotto per tutta la sera.
.Se lo metteva?
Ma no, tambor, ci guardava che nessuno se lo portava via.
.Perché succedeva?
Povero ol me martino, certo che capitava, ma solo fra rasse diverse. Gli italiani ci si rispettava gli uno con gli altri. Dignità, ragazzino, era la prima regola non scritta.
.E tè com’eri vestito?
Ah io ero un sgigolò, tutto a lucido: giaca e brillantina e via alla conquista. Dopo l’atrio entravi in ‘sto salone e il fumo spariva di colpo.
.E cosa c’era?
Ah poerì, c’era tutto il ben di dio che uno si aspettava: in fondo alla sala l’orchestra che suonava, quella vera, mica come adesso che vanno in discoteca e metton su quella finta. Alla parete di destra c’eran le sediole con noi uomini, una in parte all’altra. Si salutava gli amici e poi ci si sedeva sulla prima di quelle che erano libere e si guardava.
.Cosa?
Dall’altra parte, si guardava l’altra metà del cielo.
.Ma se era già notte! Cosa vedevi, le stelle?
Braò, prope i stele!
.Che stelle?
I fonnè, le donne! Alla parete di là stavano, chi da sole chi in gruppetto. Chele assieme alle altre ridevano sempre. A volte per me i fasia aposta a grignà, che non c’era motivo, ma facevano così perché volevano farsi guardare. Quelle da sole invece o erano troppo truccate, e l’irà mia cosa…
.Perché? Non dovevano?
No eh, una ragazza truccata l’ea una, diciamo, trop semplice. Non sapeva di niente all’epoca, non era per me almeno. Poi invece c’erano quelle sole che non ridevano e che non erano truccate e che sembravano lì come se non c’entravano niente. Ecco, a me andavo da quelle.
.A fare?
Era l’usanza. Si attraversava la sala e si invitava la donna a ballare. Andavi da quella che ti piaceva, diciamo e gli dicevi ‘scusi signorina permette questa danza?’
.Ah ah… davvero dicevate così?
Certo ragazzo, era quel che si dice galanteria. Poi se lei accettava allora si andava in mezzo alla sala assieme e si ballava il liscio, il walzer, il tango.
.Eri bravo?
Me? S’ere el più brao, le facevo ballare tutte, non ne saltavo una. E dovevi vedere come le portavo.
.Dove le portavi?
Le portavo nel ballo, le prendevo e le facevo seguire i passi e si andava come una sola persona. Mica come adesso che nelle discoteche ci si muove senza neanche un po’ di grazia e da soli, uno per uno, o si finisce per fare tutte ste sconcerie. Ci si sfiorava appena. Allora era già tanto. Anche solo ardaga i tète era peccato. Po’, me al fasie alì stes. Ma comunque ragasso mio c’era la passione. Adesso non c’è più. Non si sa più neanche cos’è, la passione. Dormà, ades.
Spegneva la luce.
Io mi infilavo sotto le lenzuola, mi giravo dall’altra parte e mia nonna mi dava un bacio.
Lei aggiungeva ‘credega mia a tut chel chel di sol to nono, l’è ira gnà la metà de chel chel conta chel tambor’
Poi mi rigiravo ed era la volta della carezza del mio sgigolò preferito.
Dopo pochi istanti, in mezzo a loro, già sognavo.
Troppo ruvida era la coperta in cui mia madre mi avvolgeva quando, tornando silenziosa, mi riportava lontano nel posto giusto.