mag 27, 2003 - Senza cicatrici    Dicevi?

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Perle d’una collana da ascoltare.

Ringraziare è disperso, un verbo represso.
A tirarlo fuori dall’anima la gente sembra che si vergogni di pudica condivisione.
Ringraziare a volte ti fa abbassare gli occhi. E no: s’ha da alzarli mentre lo rivolgi!
Non per te, ma per la persona a cui lo esprimi: che a riceverlo con gli occhi ti vede il cuore.
Nel mentre io mi metto a ringraziare, se c’avete voglia una volta che ho finito mettetevi a farlo anche voi.
Vi accorgerete che (mentre state maledicendo chi non vi aiutato riflettendo sul come nella vita ci si faccia da soli e che ‘quando ne avevate bisogno chissà gli altri dove stavano’ etecetera) alla fine forse vi vien fuori qualche nome a cui telefonare, mandare una mail, inviare un sms con scritto semplicemente ‘grazie’.
Forse, dico. Poi magari mi sbaglio.
Intanto ringrazio.
Ci metto un secondo.
Premessa: Nino non lo ringrazio più che una leccata all’anno gli basta e avanza.
Un grazie invece di sicuro va alla pazienza di Pietro, per quel che si chiedeva e per quel che incontrerà.
Il suo Blogoltre è degno d’inchino.
Zu, che gli puoi dire a Zu? Certo, gli si dice grazie.
Non direttamente a lui, ma alla cena che mi son pappato, alla musica dei suoi amici che m’ha fatto ballare, ai sorrisi dei suoi figli che non ti fanno invecchiare, al vestito di sua moglie che una dama settecentesca m’ha fatto sembrare, ai suoi coinvitati che la tavolata l’han resa reale ( anche se senza rotelle).
A Bea, come fai a non dirle grazie?
Anzi, non glielo dici, che lo prende un secondo e poi chissà dove l’ha nascosto. Gli dai un bacio in fronte e quello si tiene.
C’è un sacco di gente inoltre che gli si deve dir grazie: che in questo weekend m’è passata per la testa e che loro non lo sanno.
Ma mi fermo qui, per ora, che c’ho voglia di andarmene a cantare.
Adesso tocca a voi.

mag 20, 2003 - Senza cicatrici    Dicevi?

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Del silenzio.

Vorrei spiegarti il silenzio.
Il mio silenzio.
Che sicuro è diverso dal tuo.
Davvero. Son certo: non mi credi.
Ma se hai voglia costanza e tempo d’ascoltarmi, allora siediti e non perderti.
Tenterò d’avviarti al mio perchè, evitandoti quel che non è.
L’altra sera ti ricordi, si stava in compagnia.
Festa e gogliardia, musica e vino.
D’un tratto, che me n’ero lì in mezzo già da un po’, mi zittisco.
Mi succede spesso, qui ti do ragione, e tutte le volte ti stupisco.
Che ormai avresti da conoscermi.
Eppur t’adombri ogni volta.
Tu per me.
T’oscuri e mi chiedi il motivo. Tu per me.
Il motivo di un senso sbagliato.
T’avvicini e mi sussurri: perché ti sei rattristato?
Non c’è senso da risposta articolata, perché la scintilla non mi genera sofferenza.
Tutt’altro: il mio non dire è gioia estrema.
Ti parrà strano e ne convengo, questo mio atteggiamento.
Ma non è colpa tua: il tuo gesto è comunque d’affetto.
Solo dettato da regole che a capirle, non t’appartengono.
Il disabituo al pensare è malattia grave.
Inosservata: e perciò tragedia negata.
Quando io mi distacco dal momento e par che m’incupisca, in realtà lo sto solo assorbendo.
Gustando d’una sensazione che mi rende vivo, che ha partenza dagli occhi di quel che vedo e termina fra i pensieri di quel che trattengo.
No, non mi rattristo davvero.
Medito forse, se reggo al termine che vo’ dicendoti.
Mi soffermo a perdermi nell’omaggio che rendi alla mia vita.
Per farlo, par che mi estranei.
Il mio non è un distacco, ne un disagio.
Mi rendo conto di confonder le tue convinzioni, che tu credi naturali.
Che il mio repentino cangiar d’aspetto in volto pare a te d’umore contrario al momento vissuto.
Ma è il disabituo al pensiero a renderti così incerto.
Colui che mi sta vicino spesso non ha bisogno di altre certezze: alla mia conferma d’una serenità che vien da lontano partendo da dentro si pone accanto senz’altro domandarmi.
Da qui mi puoi credere e tutto è verità.
Oppure rattristarti per un qualcosa che non è.
E allora ti parrò quel che non sono.
Ma io ti preferisco accanto.
In silenzio, gioendo.

mag 17, 2003 - Senza cicatrici    Dicevi?

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Per far più bello il mondo anche da stonato.

Nino è quello che sparisce per giorni.
Scompare perchè c’aveva da fare (anche quando non l’aveva per davvero) e quando riappare si incazza perchè l’ho cercato.
Nino è uno che porta indietro l’orologio per credere d’esser puntuale.
Se lo chiamo al telefono mi dice che c’ho da fare Mike, che sicuro mi richiamerà più tardi.
T’ha richiamato a te?
Nino è quello che mi accompagna in aeroporto quando parto per un viaggio che lui lo vedi che abbassa gli occhi ma non ci può venire.
Sa che lo vorrei accanto, ma che proprio lui non può, e allora magari per istinto mi si mette a cantare.
Così, per far più bello il mondo anche da stonato.
Dal nulla mi regala una moleskine per scriver di quello che vedrò col cuore.
Vigliacca se me l’aspettavo.
Che mi dedica una frase di quelle che se me lo dice una ragazza è normale, ma che se te la scioglie un amico ti far star male.
Nino ci posso contare sapendo che è inaffidabile.
Che quella cosa non me la farà se non quando gli gira.
Ma io m’illudo ogni volta.
E ogni volta impreco.
Mi porta in montagna per fare quattro passi e quando m’accorgo troppo tardi d’esser sul costone tira fuori le corde dallo zaino.
Faccio neanche a tempo a ringraziar iddio che sono arrivato in cima e lui mi riporta a valle per sentieri che non conosce.
Mi fa perdere quasi la vita e quando per miracolo arriviamo al rifugio ci farei a botte.
E invece ci si guarda e mi sembra sia stata tutta cosa normale.
Nino è quello che ho conosciuto sui banchi di scuola, quasi per caso, che invece a pensarci era naturale: solo lì lo potevo incontrare.
Mi passava i compiti di matematica e gli correggevo i temi.
Nino, a dirgli facciamoci un giro in Europa senza soldi, lui fa su e giù con la testa e finisce che attraversiamo il continente rischiando di non tornare a casa.
E’ lo stesso che avevo accanto la prima volta che ho dovuto parlar straniero anni fa per trovarmi un letto.
C’ho litigato di brutto contando le volte sulle dita di una mano e sempre si è finiti a calici in alto.
Che gli altri intorno gli parlo e non voglion capire e lui gli fai un cenno e mi sorride.
Nino non è sempre stato Nino.
S’è ribatezzato per amicizia e questo alla gente neanche gli importa.
Se tutti mi rispondon con una domanda – ‘Perchè?’ – quando gli dico dove sto andando a far pazzie lui alza le spalle e accenna ‘Buon viaggio’.
E non dice altro.
Vigliacca se mai avessi pensato di dedicargli anche un post.
Ma lui se ne esce con la parola fratello qui in mezzo senza avvisarmi.
Lui, che di fratelli credevo non ne avesse.
Sicuro un Nino l’avete attorno pure voi: percui pigliatevi ste lacrime e fatele un po’ vostre.

mag 16, 2003 - Senza cicatrici    Dicevi?

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Soffritori di vertigini.

Ci son luci che non san d’abbagliare.
Ci son canti in una voce rannicchiati.
E sospiri che non voglion respirare.
Ci son lune che la notte le rinchiude.

Come on baby light my fire.
A dirglielo alla gente che stai sereno quella non ti crede.
E’ che non mi sembra, ma come fai?
E i problemi? E i problemi te non ce li hai?
Dai possibile?
Possibile. Moooolto probabile.
Ma mica è un problema.
Se non c’arrivate vi presto la scala per contare i pioli che vi inchiodano al suolo.
Salite, soffritori di vertigini da vita.
V’aiuto al primo passo, il resto lo incassate dall’adrenalina.
Arrivati in cima vietato non tuffarsi: al massimo picchiate le ossa.
Che v’accorgereste pure d’averle.

Ci son luci che non san d’abbagliare.
Ci son canti in una voce rannicchiati.
E sospiri che non voglion respirare.
Ci son lune che la notte le rinchiude.

apr 29, 2003 - Senza cicatrici    Dicevi?

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Constatazioni amichevoli.

La logica della compilation è racchiusa in un concetto semplice ed essenziale: raccogliere le hit di maggior successo, raggrupparle in un’unica confezione regalo e riempirne gli spazi vuoti con brani che nessuno conosce ma che servono a far calare il costo dei diritti e permetterne la pubblicazione.
L’ orientamento all’arrivo non motorizzato in una città nuova, che tu ci rimanga o che sia solo di passaggio, si costruisce in base a sensazioni, monumenti, campanili e locali dai nomi fraterni.Una volta recepita ed elaborata una propria cartina virtuale fatta di riferimenti impulsivi e del tutto personali ci si può tranquillamente orientare in maniera più o meno agile nel nuovo spazio erronaemente ritenuto misurabile ed invece solo rinominato, in modo da crederlo controllabile.
Chi si trova generalmente a fare i conti con l’inchiostro e le rime generalmente non può fare a meno di rendersi conto di come esistano due sostanziali tipologie di scrittura: quella riflessiva, statica, di chi immaginato scrivano al lume di candela conclude sul foglio una riflessione giacente nell’animo e quella irrequieta, istantanea, di chi ha il tratto mosso, che vien fuori solo se agitato dal movimento del momento. Ognuno di noi propende immancabilmente verso una delle due grafie senza disdegnare ovviamente di cimentarsi con l’altro risvolto della stessa lessica tovaglia.

Ho le pile scariche, ed è quasi sera.
Non posso ascoltare dopo averlo fatto per tutto la giornata.
Non riesco a scrivere: il freddo mi rallenta.
Mi ricordo di quell’edicola sotto i portici di quella piazza, della sua vetrina, dei newspaper stranieri stonati accanto alle guide tv e del cartello appeso sbiadito chiaro chiaro che ricordava un’apertura notturna per gente dall’ottima vista.
Corro, frullo avverbi, riavvolgo il filo degli auricolari attorno al lettore cd, sbaglio due volte strada sbagliando campanile, scambio asfalto con acciottolato sotto i piedi.
Faccio passare tutti i negozietti, uno per ogni arcata, uno per ogni sbuffo accorgendomi di essere arrivato in un posto già stato, solo palindromo.
Mi volto e trovo l’altra entrata della piazza, subdola ed uguale a quella da cui sono entrato.
Arrivo all’edicola riconoscendola dal clack della chiave nella toppa che la chiude.
La signora cotonata al di là del vetro si accorge di me con un sorriso di circostanza e col suo sguardo sposta il mio dito indice dal cartello chiaro chiaro alla scritta sulla targhetta finto breil che leggo solo toccando la maniglia della porta col mento:’eccetto il sabato’.
L’indice mio ora dice” un minuto” e poi fa di nuovo il suo dovere puntando alla confezione di batterie che sembrano aspettare un nido musicale e separate dall’adozione solo da una legge temporale insensata che sentenzia come prefestiva la data odierna.
Sarà stata la compassione, la mia bozza di sorriso o la banconota mostrata che presagiva una lauta mancia: fatto sta che la chiave si riavvolge, le pile vengono liberate, la parrucchiera del paese avrà da fare una permanente in più l’indomani mattina e io riassaporo note dolci al prezzo di caviale.
Stelle, lampione,panchina, piazza vuota, moleskine.
Silenzio esterno.
BB King furtivo canta solo per me e la penna prende vita…

‘…o sicuro inizierei con un bel pezzo al veleno, molto schitarrato. O alla Guccini, magari logorroico bastardissimo. Titolo: ‘I son quel che canto…
..Mmm certo, per questa miss sicuro un pezzo classico. Di quelli che ti sembran ci sian da sempre. Anzi no, magari anche ironico, un Elio e le storie tese, dissacrante persino nei momenti più importanti. Già…
Ah ecco qui ci metto una traccia di una ventina di secondi, ideona, un commento preso live da una guida al Louvre mentre decanta lodi ad un suo quadro, il più famoso, e poi un bel Battiato.
.. Il pezzo dopo dovrà essere criptico all’acchito, innovativo nel sound ma anche aggraziato da uno slang sconvolgente. Insomma quasi avesse un flauto magico che incanti, che soprenda chi non credesse possibile aver geni contemporanei. Già, per lei un Mozart da questo piccolo Papageno…
… e a loro? Non mi riesce di trovar un suono adatto, eppur li devo pur mettere questi quattr’occhi a chiuder sta raccolta di menti: dovere più che diritto d’autore…’

E mentre mumblo m’alzo e m’incammino.
Oltre la piazza m’infilo in un viottolo.
Supero due serrande abbassate e mi soffermo davanti alla libreria. Do’ un occhiata alle ultime novità, leggo la fanzine con le ultime nuove e trotterello via verso il lungofiume dove ho appuntamento con Nino.
Ritardo di un quarto d’ora poichè mi imbatto in uno strano personaggio che mi abborda con metalinguaggi astrusi.
Parla a sprazzi con spruzzi di parole che non sembrano appartenergli.
Dice che sta guarendo, da cosa non capisco.
Sorrido e me ne scappo.
Lungo la strada incrocio turisti diretti all’aereoporto che potrebbero esser inglesi o italiani: la confusione aumenta quando scambio un agurio di buon viaggio con un’indaraffatissima e spensierata ragassuola che passa con disinvoltura dagli spaghetti al fish&chips senza problemi di linea linguistica.
Parlar di cibo mi ha messo fame e quando arrivo da Nino si decide di comune accordo d’andar a parlar di nulla in quel bel locale gestito da quel traducivita da scioglinodi in gola che cucina sempre con leggerezza, tanto bravo che la sua tavolata è sempre piena.
Come al solito non si smentisce: ci abbuffiamo e lui ci chicca cantando dal vivo. Uao.
Usciamo sazi di cibo, musica e parole.
Saluto Nino e di comune accordo ci diamo appuntamento in un’altra città, diversa da Mondoblogger.
Firenze. Pare ci sia una festa tra qualche giorno da quelle parti.
Decidiamo di andarci a bordo del Pallone.
Dall’alto si ha una prospettiva diversa, si scoprono mansarde illuminate da follie insonni e si respira l’aria che solo dopo arriva laggiù.
Intanto si va.
Così mi riesce da scrivere.
Che è sempre un bel viaggiare.