Celeste
sbircia poi esce:
l’attende un verde
da balzi e tende.
Canta ma cresce,
bacia le stelle
e quel che sente
non si compra
né si vende.
Canta ma cresce,
bacia le stelle
e quel che sente
non si compra
né si vende.
Battersi i battiti,
curarsi nelle rime,
abbandonarsi alla bellezza,
progettare nuvole distese,
modellarsi di crete senesi,
abbandonarsi agli arcobaleni,
soffiare bolle d’attesa leggera,
staccare folli biglietti tattici,
declinare cene vestite di seta,
viaggiare scartando la meta,
scambiarsi lacrime tatuate,
brindare a lettere lontane,
soffiare e stringersi,
intrecciarsi e scoprirsi,
ascoltarsi muti rinascere.
Un bicchiere di mare,
due soldi di pelle scalza,
tre parole sussurrate all’alba.
Balliamo mentre mi ricordo
dove ride di casa il tuo volto:
‘resta’ fino alla fine del mondo.
In punta di piedi
tra tegole e gatti
distesi al cielo
si conta lentiggini
unendo punte
di stelle e nasi.
Caracollante d’identico sguardo,
sbadato, attinente al dono,
frugante nei sogni, albero in moto,
delicato d’attenzione disperso,
seme e biglietto d’andata,
oltre il mio domani e il tuo ieri,
misteriosamente leggero
ti tengo e lascio in volo
che tanto di panorama ce n’è,
di vuoti d’aria hai voglia
e cadute a prenderti son qui
per sbrattarti, dipingerti,
abbracciarti per lasciarti andare
cuore del pane, dente di leone
e questo è il fiore.
Fusi allerta di braccia tese
tralicci allineati attenti
scossi ai sussurri dei venti
impazienti nel dispiegar le vele.
Turbini senza voce e conguagli
imbucati arroganti rendendoti dubbi
spettatori assenti con sguardi putti
docili ammaestratori di sbagli.
Con la testa sulla spalla del divano
ed i piedi incrociati sul tappeto imbronciato
Nina allungò i turbini del pensiero
fino ai palmi delle mani.
Irrequieta
al vento che bussava di sotterfugio alle finestre
e confusa da un qualcosa
che l’aveva sorpresa durante il giorno
- e a cui non era ancora riuscita a donare un nome -
disegnava con la coperta un po’ di calore
sebbene l’orlo del sole
fosse ormai già un ricordo
scomparso da ore.
Quando il suo sguardo
finalmente giunse oltre le fiammelle del camino
Nina sospese ogni attimo
e si riempì gli istanti
di quei suoi strani rompicapi bislacchi.
Perchè,
perché si domandò
se c’è spazio persino tra gli atomi
il nostro corpo resta sempre
stretto ed incollato a se stesso?
Nessuno spazio per fuggire
e troppi orizzonti mai detti.
E quando si va in pezzi
quanto tempo serve
per dischiudersi tra gli astri
e ricostruirsi tra la terra e il cielo?
Ed ancora:
se quei puntini che vedo lassù
sono il passato delle stelle
allora io
di quale pensiero
sarò mai il futuro?
Qualcuno
distante anni luce
nemmeno sa che esisto – pensò -
ma nemmeno il mio amore
a volte si accorge di me.
Tutto questo
Nina si raccontava
mentre il fuoco la ascoltava,
taceva e si faceva brace
sotto ai suoi occhi
e sopra ai suoi andirivieni dell’anima.
All’improvviso
arrivò Sfumino,
il suo gatto mezzo grigio
e mezzo addormentato.
Sfrucugliò due finte fusa,
si prese dei grattini sotto il mento
e si accovacciò di quiete accanto a lei.
Nina lo guardò oltre,
come chi guarda il mare
in cerca di pace.
Poi intravide qualcosa
e con gli stessi suoi occhi distratti
all’improvviso sorrise
e sorrise di quel qualcosa
chiamandolo per nome.
Sfiori di sguardi,
risate scalze,
balli imprevisti.
Fiori codardi,
madide albe,
futuri intravisti.
Ruvidi pranzi,
labbra sante,
trucchi già visti.
L’acqua che passa,
tra turbini e ruscelli,
di gocce racconta.
Scorre,
bagna ossa e pelle,
ascolta, accoglie
e scivola col suo tempo,
quello giusto.
Non ama le domande,
non offre le risposte,
ma di certo arriva al sale
e lo chiama
a volte casa,
a volte mare.
Sta cosa del c’è tempo
è una balla senza senso:
ditevi del bene, mandatevi a cagare,
abbracciatevi,fatevi sentire,
burlatevi senza ritegno,
scrivete e sbranate,
ballate fuori tempo
e non aspettate a raccontarvi,
mostrarvi e stringervi
di mani e di pensieri
che il domani è già ieri
e i sorrisi rubati
sono arcobaleni.
Rebois stava scalciando stupidamente l’aria accompagnando le sue movenze disarticolate con versacci ibridi quando proprio a causa di quei movimenti sincopati la sua scarpa sinistra decise di lasciare la calzata per atterrare accanto a quella barca dopo un volo ballerino e pitagorico.
La barca, a detta di tutti, non aveva mai lasciato il molo ed era da sempre ormeggiata con la prua rivolta al respiro. C’era una scritta rossa dipinta lungo il suo fianco, un po’ incerta e un po’ contenta: Regòrdes.
Regòrdes se ne stava lì, placida e senza timori. Oltre che ad attendere scarpe volanti adorava ascoltare quel genere di discorsi che la gente fa al tramonto, un tempo sbertuccianti di colori sgargianti ed ora tenui imitazioni sbiadite di un inverno senza neve.
Rebois smise di soffiarsi addosso, raggiunse la sua perdita, si guardò attorno tra il nulla e il tutto, raccolse dal cielo una sensazione di cui non aveva ancora il nome e per la prima volta accarezzò Regòrdes.
Poi venne la vita e Rebois con entrambe le scarpe si voltò verso di essa.
Ciò nonostante, sebbene fosse distante da Regòrdes per indirizzo ed anagrafica, Rebois negli anni amava ogni tanto ritornare da lei mettendosi in viaggio per giorni o addirittura mesi, all’improvviso, godendosi il panorama fatto di bottoni sui cappotti delle persone, tegole mal posizionate e vaghi sentori di echi di campanacci legati a mucche svogliate ma canterine.
Regòrdes nel frattempo non è che lo aspettasse: passava il tempo accogliendo tentativi di punture di zanzare, punteggiando gli sciabordii nelle notti di tempesta e adorando fare scherzi al gracidio delle rane contrapponendone un falsetto istrionico attraverso lo scricchiolio delle sue assi di legno.
Rebois al termine di ogni suo ritorno da lei amava non raggiungerla d’istinto e così percorreva gli ultimi istanti giocherellando col suo bastone lungo la riva, gettando i sassolini al rimbalzo e trotterellando laconico accanto ai solchi lasciati dai carretti dei rigattieri stanchi. Addirittura se tutto ciò accadeva d’inverno, e spesso la neve ne era testimone, invece di sobbalzare a gran salti da Regòrdes sostava per un po’ al caldo della locanda del paese intrattenendosi con i pellegrini di passaggio e fingendosi interessato ai loro racconti prima di recuperare il coraggio sotto la solita gamba tremolante.
Una volta raccolto il tempo adatto Rebois alzava gli occhi al cielo, prendeva il giusto sentiero e quando finiva di fischiettare la loro canzone giungeva come se non si fosse mai mosso ad un battito da Regòrdes.
Regòrdes come sempre lo aveva già sentito arrivare ben prima, avvisata dall’allacciarsi dei bottoni, dagli sfrigolii delle tegole e dagli accordi dei campanacci. Quindi, quando Rebois sull’uscio della locanda alzò le sopracciglia per riveder le stelle, lei sapeva già perchè valeva tutta quella pena la sua attesa.
Rebois si fermò il suo solito istante per osservare Regòrdes tutta intera: raccolse il tempo con un gran respiro e impercettibilmente allungò la mano per trasformarla in carezza, come sempre.
Regòrdes la accolse, passò tutta la notte ad ascoltare nuvoe storie, si lasciò cullare dalle sue onde e dal suo mare, come sempre.
A vederli lì sul molo più che sinceri parevano imperfettamente veri.
Poco fa,
tra il fruscio del volta pagina,
che senso ha:
tutto il farsi vedere,
radersi davanti ai follower,
faticare l’esistenza se non vista,
ruotarsi di like compiaciuti,
plastichine d’involucri
trasparenti e vuoti
senza respiro, aria e neuroni.
Bacelli dispersi,
senza echi,
egobulimici:
pioggia cadente,
sei inutile
se nessuno più ti sente.
Latrati di schiuma sporca,
pelle tesa attorno alla pioggia,
fanali stanchi d’auto indolenti
e un ragno misero che danza
appeso allegro al suono rauco
di un magro pomeriggio scalzo.
Prendi, lascia,
bagnasciuga sulle note,
ricalcola il ritmo,
il passo, le assenze,
i mugoli, gli anatemi,
le voci care quasi dimenticate
e poi attenuati,
scegliti un cielo,
assorbi nuvole e venti,
lasciati alto,
tocca i comignoli,
accarezza gli alpeggi
e quando ritorni
non bussare,
se proprio insisti
canta e siediti a tavola
non attendere,
saziati e racconta,
bevi e osserva,
come dovessi
far quello che riparte.
Accogliere, distogliere
accertarsi di accrescere:
alla fine del panorama
ritrovarsi stanchi,
diversi, con liuta
da reintrecciare,
di nuovo, da capo,
quando già pensavi al riparo
ed invece ti attende
il più grande maggese.
Colla di fumo, sguardo altezza tavolino.
Settebello, scopa, bestemmia che si sente fino alla chiesa.
Duecento lire, wonder boy.
Una spuma, un pacchetto di merit, una boccia che scavalca la sponda e finisce sulla piastrella.
- Fi piano, disgrassiach! – dal bancone la Sunta dispensa invettive e bianchini.
Corro al mio angolo,
entro nella cabina
dentro la sala
dentro al bar,
fantascienza anni ottanta da numeri senza prefisso senza dottori misteriosi.
Swissh e puff, mi ovatto richiudendo la porta pesantissima e mi diletto mentre leggo l’elenco altissimo di paesi lontanissimi tipo Gaverina. Se avessi un gettone avrei il mio bel minuto di connessione. Non ce l’ho: mi accontento di sapere che sono le undici e ventitre minuti, le undici e ventitre minuti, le undici e ventitre minuti.
Click, swissh e spuff, torno al mondo spingendo la porta leggerissima che mi ridona l’aria calda della mia domenica in maggio di rosario d’infanzia.
Salto in auto, lui l’accende da signore vestito a festa e senza le cinture allacciate la valigia è quella di un lungo viaggio.
Dune d’ombra
là ti sei nascosta
fra silenzi, unghie,
veli e sospiri.
Straniero al camino,
bloccato e sfasato,
non sono, non posso,
non riconosco.
La luce visita prima,
curiosa e straniata
trova i cocci,
la polvere ed un soffio
trattenuto in mano
quasi scappato.
Fuori dai vetri
tra roveti in germoglio
si ride di chi
ripudia le spine
perdendosi le rose.
Cannella, caffè,
fiocchi di fiori,
pacchi guardinghi,
ghirlande sospese
e cori di campanelle.
Dita brinate,
propositi malandati,
scricchiolii anziani,
coperte sui nasi
e schiocchi su baci.
Gran balzi,
ninnoli alle caviglie,
sussurri spigliati,
monetine tra le dita,
occhi gitani
e baci tremanti.
Santissima di spera,
tarda e codarda,
sia tu falsa causa
dei miei vuoti d’aria.
Simmetrico e traslato
giringiro senza fiato
casco incipriato,
fracassato e stonato.
Otto minuti al nulla:
picco di assenze
e caffè corretti grappa,
baraonde inutili d’anime scontente
e voti socchiusi pronti al mercato.
Ricalibrarsi è complesso,
ritrovarsi al limitare del salto
è poi quanto vero bizzarro
ma al fine siamo
quel che ora di noi non sappiamo
pertanto a guisa di respiri distesi
saltando ci concediamo
vuoti piccoli e giochi immensi.
La distanza di un bacio
raccoglie un paio d’anime storte,
buone speranze perennemente acerbe,
trombe d’aria, piacevoli equivoci
e gesti incomprensibili ai sani.
S’alza scuotendo un’idea:
vacilla, osteggia e scartabella
in cerca di un baricentro ossequioso
o di un arrocco che lo raccolga.
Si ferma senza senso
al centro di un proverbio
richiamando con un gesto
un attimo del passato se stesso
poi si rimette scarno al passo
diligente alla promessa.
Chissà che si disse
fra il vento e la polvere.
Chissà quale avventura hai tra le dita,
mentre la polvere danza e le ombre bruciano:
un orlo di rum, due gocce di destino,
un gioco di ciocche sul volto del collo,
un sogno cadente dalla mano di un bambino.
Fermato dal nulla
appeso di stelo
ritornando impavido
giocando il ghiaccio,
immortale effimero.
Buongiorno,
nubi private dei sensi,
giri cauti e stupidi:
compresa la misura
d’umano resta il fiato
poco, prezioso e anomolo.
Di grandezza chi siamo?
Vaganti un pizzico,
già sbrina e scordiamo,
arriva la sua mano:
non molliamo.
Barbablù pacato,
disteso immobile senza fiato,
contava le ore
raccontandosi pulsazioni,
ritrovandosi nei tagliandi
dei bordelli senza fardelli
e leccandosi ferite
attribuite a salti senza rete.
Muoveva la coda,
giocando tra i rovi e i burloni,
amava le fiere
ma quelle senza distrazioni
e sovente sarcastico
adorava passeggiare muto
nei discorsi da centri sociali
inneggiando diritti
calpestando merde pensierose
soprattutto balcanico
quando trattava d’auto e d’amori.
Sfiancato,
pacato silente,
onesto al refuso
e perplesso latente.
Sfidante al buonsenso
richiamo per dorsi,
coccio d’altri
resto senza avanzi.
Tuttavia smosso,
rinvio e incasso,
fiero di nebbia
e ladro d’attesa.
Frinir del resto
com’avessi un dato tempo
scansando il dispendio
dell’andata disperso
brilla d’alloro
stringe il sangue
e della sera piange.
Sgocciola un tepore
lontano dal porsi
eccentrico al porgersi
eppure refuso ed onesto
propenso al ballo
e per un volgersi
specchio d’orgoglio.
Quest’invisibile Ora
al silenzio immobile
ha scoperchiato le piode,
steso di stelle lenzuola,
sciacquato al sale i volti.
Tutto il resto è ancora qui:
già uguale e diverso,
Signora.
Poggiato di gomiti sul mio davanzale osservo tra le persiane della finestra difronte un riflesso sbilenco che attende il mio sguardo quel tanto bastante affinchè accecato io volgessi il mio intento di attenzione al bastone poggiato sul balcone opposto al dolore.
Essendo accostato alla ruggine di un solo pensiero del fiato succede che quel supporto legnoso in quel preciso appuntamento con il cambio del guado del mio pensiero se ne cada diretto in strada con un balzo che non definirei molto ampio ma ripeto bastante al tocco sordo provocato dal suo rimbalzo di distacco dal collo del malcapitato infrangente di legge passante non spesso sovente al di sotto della traiettoria in sola prova cadente.
Il tutto nella voce fra il cappello ed il mento genera un sacripante verso di incredula ammissione per la ricezione del suddetto bastone involontariamente fuori dal presidio della mente ed un’alzata di orbite in cerca del movente per altro assente.
L’infortunio ambulante raccoglie le borse della spesa e si avvia nuovamente verso questa comune e straniante quarantena.
È allora che lo riconosco.
Non il bastone, non il balcone, non la caduta, non il passante ma la risata.
Dietro l’angolo della misura del palazzo basta quell’attimo a mezza altezza per sorprendermi di come a distanza di anni io già sappia a chi appartiene quello stupore a cui non so ancora dare il giusto suffisso al nome.
Scatto, trottolo le scale e prendo la corsa fuori casa: scavalco il bastonato e giro lo stucco dei muri.
Nulla, non vedo che quel che già conosco.
Lo penso, lo ripeto e quindi lo parlo per poi urlarlo:
- Smucky, lo so, tu lo sai, fatti vedere!
Tre cinguettii di passeri novelli cittadini, la millesima sirena lontana, lo stesso caldo silenzio primaverile che da giorni ormai spaventa il tutto e il nulla.
Giro le spalle e torno verso il mio assedio casalingo d’attesa per una storia che non sconta, non scritta e conta le assenze.
Al sesto passo del rientro risponde il suo sussurro accovacciato tra il marciapiede, il finestrino rotto ed il vermiglio di una portiera anteriore rigata.
- Se lo sai non hai bisogno d’oltre.
Rispondo al fermo, ma senza voltarmi, guardando altri nuovi vuoti tra le strade vuote.
- Hai ancora gli stessi occhi? – gli butto lì tanto per.
- E tu hai ancora lo stesso inchiostro? – risponde come se.
- Dove? Son più di dieci anni e oltre!
- Oh, non molto distante dal tuo allontanarti in realtà, dicono si chiami ‘quel che succeda a volte nella vita’. Prendi la prima stradina al bivio impolverandoti senza pensarci e poi è tutto in giro crescente di arzigogoli che poi neanche ci si ricorda per i compleanni.
- Come mai adesso?
- Hanno fermato l’attorno, hanno cancellato il paesaggio e rimescolato il mazzo. Ora non è più ora e domani non ha più un verbo se non quel ritocco di campane dilaniante: ho pensato che fosse un buon momento.
- Lo è, lo è sempre stato. Posso voltarmi giusto per ricordarmi di ricordarti?
- La scelta è tua, ma la storia è nostra. Facciamo che ci vediamo quando ci rivedremo ok?
- Quando?
- Presto, te lo stai già promettendo: ed è già un buon segno.
- Allora sia: a presto, amico mio.
- …
Il tacere è un invito al girarmi per scoprire il vuoto ma prima del farlo passa un’auto con a bordo un paio di carabinieri: hanno il finestrino abbassato e dalla radio risuona straniante l’inno d’Italia.
Così capisco nel non voltarmi quel che quella candela accesa sul mio davanzale ora mi invita a fare: ‘vai avanti che ti aspetto’, direbbe Smucky.
Perché è vero: c’è un qualcuno che ci aspetta, alla fine di tutto questo.
Perciò: avanti, andiamo avanti.
Sospendersi
al fine valle ancora ballano
ma il vento sposta il petto
l’istinto stringe vicino
ed il monte è già sceso.
Stiamo e saremo
futuro di altri
forti all’esempio
e nel cuore della notte
porti rinascenti.
Sedici al pendolo,
tra il tuo saluto e il mio infinito.
Ancora sei di stelle ancòra
sorpresa, carezza, bastone e speranza.
Camicia stirata, sua altezza,
mio sguardo e ruvido accordo.
Continuo ad allungare i piedi,
d’andata altalena: senz’albero
rinforzano le radici
e s’allarga lo sguardo.
Rimante ricordati sempre
senza mure parole del fare
nulla pacate le ali di suole
potrai mai realtà scolare.
Poggiati e assorbi
scolla e sbadati
mentre coperto implume
sbeffeggi tra i calici
ma mementa al tocco
che alle maniche e ai tagli
hai il debito rabbocco.
Con permesso.
Brucia quieta
il movimento dell’assenza:
onda stagna derisa,
bettola per aspre posture
se volessi aprire il cielo
parrebbe indecidersi.
Carrucola sfilacciata
sentinella persa
vuota di peso
sazia d’acqua cheta
arresa al vento
parca musa smaliziata.
Al tuo credersi voce
pulsa l’ombra del fuoco:
ruga senza sonno,
persa al gioco,
ninnola sbadata
morsa silente dal fiato.
Dazi ed incensi
lontani dai giusti sentieri
opachi e pesti
brillocchi di quieta cera
unti da palmi di mani stanchi
scorze di quei forse
di cui danzano le onde.
Miele di rena
conta di buffi racconti
monile sgretolato dai sogni
più colpi che spinte
che di gioie brune
e pasti dipinti
son piene le quinte
e sazi solo i vinti.
Rivoli
spaventi
foglie sparute
ciotoli al fresco
attento
senza bordo
senza fiotto
senza fianchi attenti
attendo
al fruscio del ruscello
alle prede
alle piode
al giro del vento
ora esco.
Di mare
dovreste salpare,
toccar di schiuma
sentire l’assolo
quando si è soli
muover ruotando
senza l’aria in terra
nulla e tutto
potesse questo
natarvi un risveglio
scovarvi effemeridi
scalzi e sestanti.
Le candele
allo scoppiar polvere
van soffiate dolci
per allungarsi
dalla ruta da Chamiza
alla ribera del Lago
solcando le piume
soffrendo la ferma
e non aver più tempo
per fare quello
che non ti piace fare.
Cani sciolti per fardello
attenti al primo che si distoglie
affamati di strade non viste
o di cibo senza importanza:
alla prima luna di borgo guaiscono
mentre si raccontano le ferite
con l’acqua negli occhi.
Il primo caldo invade
non si presenta e si siede
ammalia e millanta
eccita di malinconia
e rifugge d’aceto.
Stasera all’Odeon
vecchi in pellicola
parlate arcaiche
gesti tronfi
e baci crudeli.
Scorrendo l’ombra
eccolo
forse era
quel lasciarsi andare
buia fiducia
tensione
fior di luna sciolta
erba futura rugiada
sterpaglia
calore disperso
pelle accesa
corsa al fiume
stesse gocce
guance lievi
sinceri.
Uscendo sto attento al friccichio
e dietro l’angolo attendo
pare vento
e togliendomi la coppola
indugio
s’alza un sorriso
vivo diffuso
allungo le giornate
sapendo del tuo gioco
e del domani che mordi
mentre quel che riavvolgo
tu lo dipani
tutto cresce
sotto il sole
tutto va
che in un momento
il nulla si fa
scanzonando il tempo
la voce cambia
n’esce colore
quale pace
senza nome.
Sospendendo il turbine
tra l’intenzione del sempre
e l’istanza del dunque
vi è un barbiggio d’essenza
che spesso si diverte
mentre si lamenta
ed è in quell’ora
che smette al cielo la pioggia
l’affanno incontra la novella
e non si dorme
ma si sogna.
Spalle al muro
con questo fischio indecente
tra un tasto e l’altro del pianoforte
senza ascoltare un pallone perduto
o un fisico tropicale
non vale.
Raccogliendo mezzi ceffi sopraffini
ed esempi calzanti di perfetti sconosciuti
rugoso d’affetti e tenue negli abbracci
strimpellato d’assenze vocali
e quanti ingenui racconti silenti
ma attenti.
Star così pianti da esser contenti
nel veder le luci abbastanza distanti,
le spalle delle montagne amiche
e le pietre in riva asciugarsi
di quel che fa le giornate corte
in sorte.
Erba che neve del greve
guarda là per le valli
al fieno che le donne rivolta
c’è un cielo a cappello
e un fiore di quel che si sente
senza una valigia che conti
l’esser mica tanto in bolla
vicino al torrente
perduto nel canto dei larici
lasciarsi all’ondeggio
sopra il vento di malga
e vuotarsi il pane d’anima
col salto più alto del guado
mai più lontano del fumo.
La mia dolce meta
lei s’adombra e scuote
non è un fiore di seta
pura di montagna
e tremante al ballo d’aria.
La mia dolce meta
balla che fa ragamuffin
e l’acqua del temporale
se la beve tutta insieme
che nulla lei teme.
La mia dolce meta
fra spina e giro di basso
non lascia mai la mia mano
onda e battito
polvere e zaffiro.
La mia dolce meta
milonga sul lungomare
sfiora la mia umanità
posa la spesa
e sfiora le stelle.
One hand in the air
eccomi sfrucugliato bastante
addossato alla corte
del primo che interrompe
questa danza di una stanza derviscia
senza il buon senso di mostrarsi al plesso
un cartonato del suo fuggire
per fingere di divenire
caro mio ti offro caffè e simpatia
per rimanere sveglio
per vincere al karaoke stonante
e per spedirti una cartolina
con scritto ‘smettila di parlare’
così quando arriva
sarai già qualcosa
di stupidamente nostalgico
two hands in the air
come sempre che vergogna
le tre versioni della storia
concidono solo alla partenza
e si abbracciano all’arrivo
ma considerando l’eqauazione a due terzi
la mia postilla è grata
per non essersi mai arresa
ed essere leggera ad ogni sole scalzo
dove devo firmare.
Da qualche parte attorno al paradiso
c’è una corda di clavicembalo
adagiata ad un pressapochismo di liuto
che tenta sovversivamente un accordo fuori tempo
tuttavia rischia e saluta
qualsivoglia sia il tuo credo
e questa sorta di stridio inumano
racconta un tentativo di vita
passata a reincollare cocci,
a giungere sorridenti nascosti
rifiatando spesso ed inutilmente.
Stringiamoci adesso
che l’aria è un vezzo
posato nel darsi
e grato ai passanti.
Dietro l’angolo
un pianto da cameriera
ed un marciapiede a mondo
nascondono la lontananza
di un plesso anni settanta
e una povera cornice
di un rione ormai senza voce.
Per caso
nel freddo adiacente
scollino di quel che basta
per sedermi a tavola da ospite
magro d’aria e attratto
da un vibrato fuori finestra
che m’allunga un ritorno
e mi restituisce un sogno.
Che non è un reietto o un fulmine spettro
non ho mai mercanteggiato
la magia inquieta di chi pavoneggia
nè la sontuosità di chi profetizza
ma ritrovarmi ancora no
che non posso guardare oltre il lago
sognando Central Park
con le poesie non si festeggia
ma qui danno l’aria gratis
perciò finchè non manca
crederò al meglio di me.
Questo è il momento adatto ad un coro in ferie.
Senza denti ringhierò baffuto
qualcuno esperto di altro mi mancherà
e mi resteranno solo gli abbracci
vestiti dei loro cappotti
caldi di amici distanti
viti che han perso il filetto
e girano
e girano.
Questo è il momento adatto ad un sussurro in bossanova.
Guarda
per me puoi anche disgustarti
o grattare i tuoi biglietti
e lamentarti mentre sbecchi unghie
ma guarda che è solo un raffreddore
pari morire dispari
e non si fa
al limite
ci si racconta in due
e si brinda
passa tutto
senza che te ne accorgi.
Ale ora ti spiego l’assortimento,
stai attento.
Domani, forse ieri,
dovrò raccontarti che faccio
e a te ti par poco.
Sai che ti dico:
son poeta e sognatore
che le rime costano niente
ti spezzeranno le ossa e l’amore
bucheranno le tasche e anche l’ardore
ma ti baceranno piano e sempre
un giorno alla volta ogni giorno migliore
e
allevatore di sogni
che quelli costano ancora meno
ma ti allargano il cielo
e quando piove
sai cosa raccontare
e quando c’è il sole
son sfumatore del creatore.
Perciò Ale scrivi e sogna
che ogni volta
forse
dico forse
ogni volta che lo farai
potresti pensare a me
alla mamma
al buon essere vivo
e sarà un bel divenire
e potrai donare
altro non ti servirà
fidati
anzi no
ricordati il cantare
quello lo potrai fare
anche quando le cose andranno male
figurati quando sarai leggero,
fiero.
Così infine
son qui barbuto a raccontarmi
come sarà
il tuo vivere,
il tuo volare
e il tuo cantare.
Lo so:
sarà speciale.
Un abbaio da chissà quale castello
mentre ora dimmi quale risposta dai
a questo grigio tutto assurdo
sul baricentro tra cielo e fiducia
vagando al largo di un tardo letargo.
Foss’Ottobre pagherei la retorica
al caleidoscopio delle foglie
svanendo al fronte di un improvvisa radura
inerme per cospetto al gioco delle ombre
e latente all’assenza del dubbio.
Tuttavia adesso hai un permesso
e un dirsi dal biglietto che stringi
perciò accomoda gli alibi, falsa gli accordi,
muta i cartelli e soffia la nebbia
che oltre è sempre un buon verbo.
Nemmeno un laccio o uno stratagemma
l’attorno non credeva al lampo nè al profumo del fieno
solo un qualcosa che sapeva di aver perso
ma non come tornare dove pensava fosse il posto
solo avanzare e non poter domandare
straniero nel suo essere andante
mai nell’agio di un buon pasto
o nel corpo sotto un tetto.
Nessuna lama, bagaglio scarso al suono
un piede dopo l’altro e attento alle lupinelle
pacato durante uno schiaffo
curioso alle carezze
e discreto nell’andarsene
senza un perchè nelle tasche
ma con buoni girotondi
e oltreoceani nelle pozze degli abbracci.
Quel che brucio dentro altre braccia
quando stringono il tuo passato
è un passo a quattro che scende il cielo,
che non coglie la giusta luce in distanza
e non rende omaggio al dirsi amico.
Credimi a volte non basta un sax
od un raccontarsela per scollinare
ed è poco prima dell’alba
che sento l’arrivo di ciglia screpolate
e il profumo del saperti vicino e disperso.
Stancarsi d’abusi è un ritornello scadente
quindi prometto di sempre perderti al ritrovo,
così al vantarmi del tuo conoscermi il nome
in ogni tempo giocherò al mio buffo modo.
Viaggia affamato,
adora le gocce,
fiuta il tremore:
vuol solo piangere.
Ha proiettili sotto la pelle,
terrori capovolti negli occhi,
mani attaccate alle zampe
e un pianeta dove risplende.
Non si lascia abbracciare:
ha un costato di frecce spezzate,
orecchie ricoperte di maldicenze,
olezzi al naso che non si posson curare.
Stamattina alzando il sole
ha deposto i battiti,
firmato la sua dimissione
e sbattuto le briciole dal cielo.
Salito sul treno senza un autografo
alla vista del mare è saltato:
stava per dirmi un segreto
ma un asterisco lo ha coperto di neve.
Lo han cercato invano fino al primo lume
tra sterpaglie e cocci di desideri:
senza trovarne nè il senso nè il tempo
scorrevano due sole piume lungo il fiume.
Un secondo d’uomo:
bastante al percorso
cencioso all’incompreso,
difetto al sapor del poco spavento.
Zucchero d’amor perduto
imitazione di un popcorn scaduto
lampo intuito lontano
re degli astanti silenti
angolo della sfera
migliore dei migliori increduli
giovincello in attesa del fuoco
assaggio di una sveglia già suonata
nessuno vuol vederti luccicare.
Un’altro anno va a dormire
la Fender attende ancora il suo sol
Cinecittà sta smantellando i suoi perchè
e la tua ragione si sta svalutando
il cielo mi chiede se son vivo
fa il bischero con le mie vene
che gli dovevo un abbaglio di pazzia.
Pressato fra molecole
asso da canasta
senza più ossa per mollare il colpo
con un guaito soffocato
ed un buon rendimento alla distanza
ma con bulbi recisi agli occhi
e congiunzioni a fuor di bolla.
Cos’è mai questo frusciarsi fuoribanda?
Un’avvertenza ignorata, una sosta dimenticata,
un appuntamento forzato ed una resa disattesa.
Empty,
scassinato e oltremisura
oltre il guado senza condimenti premettendo
ora m’accorgo solo delle stonature
delle macchie e del freddo che sostiene il muro
alfine insisto
solito contrappunto polifonico muto.
Spunteggiami sti batuffoli di quieto stare,
mordaci eloquenze di magnanimi e poderosi tonfi istrionici,
che si racconta senza pane se non puoi arrivare,
lasciar stare?
Pagare dogane e caldi ricambi
per un inverno al germoglio?
No, grazie.
Ma quello aveva il naso adunco,
uncinato alla rima
ma mai bugiardo, solo scambiato per poco dazio.
Sognava,
d’amore amava come s’ama senza amore
e viveva per altri
perchè d’altri si è.
Fidarsi,
è un pegno che ha rincorsa
senza fine e senza ombra.
Color ch’avvolgi
tramonto e sogni
bivio al destino
burla e cammino
almeno un istante
ti ho stretto
per un secondo
rivisto e scelto
lasciato distante
e mai detto: resto.
Funambolico ondeggio
sui lacci dei comignoli
sbraitando senza contegno
quattro lagne inneggianti
ai rivoli pesati
sui fianchi di nubi coese
al baluardo di evaporati contegni.
Senza realtà
mi arredo le idee senza soffi
che tolgon l’aria ai sogni
ed al calore negli occhi.
Escludendo tensioni retrattive
fra rovesci di cieli
che di secondi sprechi
ormai ne ho grappoli da vendemmiare
da racconti buoni per le rughe
oltre l’orlo delle gerle
vago alzando ogni masso
per soffiare quel nascondiglio
sotto al periglio del mare.
Gira che ti rigira
è un attimo l’India
polvere e andare
verso il panorama
con i battiti alti
e la corsa lunga
la Luna intanto ti chiede permesso
una farfalla mi sorpassa
e la voglia di stringer mani
anestetizzato, beato
colmato d’allegria e stelle
lontano è un bel nome da pronunciare.
Addosso la voglia del capire
del come mai chi sei dove vai
sotto gli acquazzoni
sopra i cassoni dei camion
dentro gli occhi al Tagelmust
sopra il petto poggiato al kente
tra un sms chilometrico d’affetto
e labbra tradotte in viaggio
soffio e mi prendo altro vento
non c’è rimedio,
non c’è rimedio,
non
c’è
rimedio.
Gingilli aristocratici
tra i plumbei ansiosi turbamenti
atei di monete addolcite:
scricchiolii di lineamenti spenti,
pelle superflua in saldo d’attesa
e spesso, troppo,
calori notturni madidi
e per nulla sazi di spazi.
Fessure ormai
chiamo il coordinamento di pupille rinchiuse,
volenti del sarebbe stato bello se fosse e invece:
si dice che il domani avanti rialzi con le spalle
ma questo altro giro son disteso e poco attento.
Diciamo che ho portato,
ho speso fiero il mento,
ho cambiato me e il mio credo
e ho appeso
perchè bisogna non arrivarci per squalifica:
ora sant’uomo che vuoi
o che mi strappi dalla mia rivolta in maschera
e perchè m’hai tenuto
come un clichè che hai già tradito.
Prestami un motivo,
magari al resto d’osteria
o sazio di quel che di spirito
ancora ti spinge altrove,
inseguendo una maturità peggiore:
sbilenco mi sorreggo di rabbia
e non mi oriento tra le scuse
e quel che ho già dato
ma rispetto il tirar tardi
e il buon gusto del mattino.
Non mi chiamo più per capoversi,
non sfido più la nebbia,
non sento il bisogno
d’esser ladro di me stesso.
Sancho andiamo a guadare ancora il fato,
ma non punzecchiare
e accarezza il mio cavallo:
lontano mi pare ancora un buon compagno
oltre il naso di un castello
esser questo del fu dirsi me stesso
alla lunga non conviene
ma è quel che valgo,
è quel che m’appartiene
o che posso giocarmi al metro
senza altro che corteggiar la salita lieve
e restituire le stelle al cielo.
S’assorda il fregore dell’onda
l’andirivieni dura un secolo d’istante
perchè al volo non si respira
mentre la giostra si rincorre
il palloncino vola ridendo
oltre la retta non ci appartiene
e Saturno si soffia via la polvere.
Ballando, programmo e canto
il mio prossimo mestiere del niente
perchè al fondo siam solo particelle
od olio che graticola impercettibile
in cerca di bruchi con grandi orecchie
e nel mio nascosto di simpatie congenite
del mio resto son bucate le scarpe al parto.
Nu poco più per piacere
io già lo so
stanno raccontando le cose
tu nun me po’ capi’.
Ciabatte appoggiate lente
affamate di ringhiere scrostate
sale che adora il mare
arrabattandosi l’ingegno
mentre fuori tramonta.
Ciotoli annaffiati, scogli spogliati,
la neve buona per una cartolina,
le vocianti e i cani sciolti,
nuove nuvole sollazzano l’hotel.
Sferraglia intra i vicoli
sfugge la pietra arsa
ascolta il racconto dell’acqua
che non fa per nulla rumore
ride senza un tempo di ritorno
e riflette quel tuo bagliore.
Eh: il buon 25,
questo è il tuo terzo.
Accovacciati,
vieni qui al fianco:
stammi stretto stretto.
Senza quale senso
sarebbe il mondo, adesso?
La prima scoperta del tutto,
una parola nuova
al darne un posto giusto.
L’immenso di questo pauroso Copernico,
la storia d’altri spettatori
che quando ti scorre diviene migliore
passi ad immortale,
sai che sarà la ragione
per cui il tuo sguardo
cerca il mio esempio
e il tuo semplice ascolto
è un complesso dono.
Cerco e ti spiego,
m’accartoccio difronte al cielo
provo col racconto
e ti sorprende il coro del fuoco,
ridi e l’eterno vorrei fosse qui adesso
ma già sei altro e ti rincorro
lieve al passo
del tuo essere il mio canto.
Paralleli:
mai toccarsi
cadrebbero i cieli.
Sotto al fiume dei ponti
si giravoltano gli arcani:
duri muri e buoni sconti,
v’è rumenta per cani
nel divieto del baciarsi.
Pasteggiando gocce di sole
ti chiedo come mi vedi
con lessico d’albumi e cazzuole:
tu stendi abiti di lino leggeri
profumi d’un lieve pallore
e giochi fior di tarocchi scarsi.
Il re di piume assurge
pontifica e spilucca il manto
fa ciao ciao col becco
ma non è mai quieto dentro.
Oh wait
ora canta perchè sorpreso d’alba
riluce pregiato
allunga il collo sul ramo
poi ripiega perplesso e ammaliato.
Distorce con l’unghia il laghetto
discolo e caparbio scucisce
è il suo corto specchio
ci gioca annoiato prima d’altro.
La stella sul petto
sigillo ed essenza del mondo
batte d’un tempo imperfetto
nonostante abbia un bel riflesso.
Due per uno tre,
gloria al padre alla madre e a te
mitosi di splendori
ada che l’indice chiama
spegni la luce accendi la mamma
torta a pois d’oltreoceano
per la festa di una buona liberazione.
Che entri la gioia
si sieda e resti
s’inviti a cena
racconti di mani unte e pensieri lieti
tocchi leggeri
sparsi riordinando i velieri
alzi le tende inesistenti
faccia entrare il sole
doni calore oltre il magone
perchè oggi passerà il raffreddore
per quel che era sbufferà
lasciando la luna piena
e la tua mano sulla mia schiena.
Ci son tempi complessi
pezzi di ghiaccio endovene
rari di fieno e sazi di pece
che dentro t’incollano al buio
ma
il lavoro del vento è eterno
la brezza calda non ti volta
e sciogliersi succede
come il pianto, la gassa,
la risata che prima non c’era.
Signor Mediterraneo,
grazie per l’immensità d’insegno
la placida tutela della pazienza
la grandezza del vuoto
consapevole di un approdo
che non lo vedi ma lo senti
e che solo son nulla
che i compagni sulla nave
saran taglienti ma sinceri
che ti devi fidare
se vuoi capire quanto aspro sia il sale
ma quanto bene possa fare
intorno al mondo
puoi esser bandiera a sventolare
in balia del primo scirocco
o ferro foss’anche arrugginito
ma pur sempre padrone del tuo destino.
Consegno a stretto giro di posta
quest’eterno firmamento
al mio unico doppio universo
oggi al festeggio.
Buon 25 al nostro boccale
al brodo che cuoce il futuro
al nostro secondo anno numero uno
al doppio passo del verbo amare.
Rara l’alba arranca
le luci faticano il passo alla musica
mentre ascolto quest’alzarsi
caldo è il nido
senza saper sempre quale divertimento
cuoce la terra
lacrima il cerone
qualche volta non è il solito giro
è un crescendo
s’amplifica il battito
mi connetto ai fili d’erba
carezzo le sete di Pollock
turbino tre rughe indietro
alzo il pollice
e salgo sul camioncino
breccio con uno strappo
ben riverito e nutrito
reclamo la vita
la scovo nell’angolo
e passo al mio passo.
Cani auguri fieri sinceri:
alta fedeltà del diapason
virata in cuffie sonata
e tramonti lieti.
Stringo la musica,
appartengo al ritmo,
scintillo la mia grande donna
e canticchio il mio piccolometto
che posso chiederti di più?
Dovandiamo
con tutto quel rossetto
e le guance a gote
tra i muri dipinti a pianti
e le carezze a sberle
fresche vite in demo
andemo che è tardi
per vivere sbocciamo
altrimenti copriamoci le palpebre
stanche di sonno
d’occhi vivaci
di profumi sbucciamele
per carpe maraviglia nella boccia
di echi da due secondi memory
qui è spelendido
tic tac
qui è splendido
tic tac
qui è splendido.
Sole sul fiato
scarpe catrame incollate
mentre volto il mondo
io mi fondo col tutto
e volo le critiche
e lascio le scatole
e apro i cieli
e m’orizzonto.
Bevo le gocce d’acqua
appoggiato al davanzale della mia room
in questo Chelsea Albergo
io squilibrio nel villaggio.
Il mio Sahara
ha grandi stelle,
fessure d’occhi
e lunghi tempi
per rincorrersi.
Venere al mattino
un violino infinito
l’osservo da niñio
lontano bastante
da sentirmi vicino.
Rift solfeggio crescendo
ogni battito di basso
è centripedo convesso
verso il mio mistero
verso l’universo
senza fine il pozzo
attento.
2013
fammi crescere i denti davanti
fortificami gli occhi
dinnanzi agli smargiassi
calibrami i polpacci
e non dar spreco di santi.
…Yuppi du,
yuppi du, yuppi du,
Yuppi du i du,
yuppi du.
I feel the sound of
a thousand colours
wich paint
this scene
this act of love
i hear the music
that comes from the water
that rises from
bowels of the heart…
Oltrepupilla
mentre stai attento
vedo il deserto nascosto nel granello
sento la terra persa sotto i piedi
gioco col tuo domani origami.
Sorridi
e cominci a raccontarmi
di un mondo nascosto
tutto tuo, tutto acerbo
tutto fatto di un osservare perplesso.
Sei qui ad irrobustirti il sopracollo
mentre ti spiraglio a cosa vai incontro
ma è come tu fossi già viaggiatore
in questo piccolo cielo accanto.
Già c’eri ed io mi siedo a fianco.
Piangi spezzando i bruti più puri
e balli fino all’alba
di una tua danza riflessa.
Molla di un’energia compressa,
big bang d’amore,
atomo di dolce fusione.
Ti accarezzo,
ti stringo a scomparsa,
ti sento effetto
di un progetto perfetto.
Mi guardi.
Quasi sorridi.
Poi ridi.
La bellezza ha un senso,
il centro del gioco di leve
ha il suo baricentro.
Vado a raccoglierti stelle contente.
Quando a Kumasi l’uomo George
m’ha alzato sopra il tetto del Tro-Tro
ed ho visto l’umanità brulicare
io non capivo di quale attesa si trattasse.
Quando a diciotto son tornato a casa
sul treno clandestino dall’Olanda
e il cane del poliziotto quasi mi ha morso
arrivato alla stazione di Bergamo
una ragazza mi ha prestato 1200 lire
per farmi il biglietto
perchè tornavo a casa senza un soldo
con nello zaino mezz’ Europa:
quello sguardo che le ho rivolto
io non capivo cosa aspettasse.
Quando alla terza Londra
mi son fermato al punto cardine
nel centro del Tower Bridge
il vecchio Tamigi al nuovo sguardo
non era agitato
ma io non scardinavo lo sguardo amico
del prottegi corona.
Quando mi han sequestrato il passaporto
mentre in cielo volavano missili terra aria
e io sentivo puzza di gasolio
mancavo al blu degli occhi
disperso nel Mediterraneo
io non capivo di cosa avessi paura.
Quando a Saint Malo
mi son bagnato nel sale dell’Oceano
mentre mamma era distesa sul bagnasciuga
furba è arrivata l’alta marea
e l’ha sorpresa ridendo
io non sapevo dare il nome
a quella senzazione.
Quando a Santiago
i miei piedi han vibrato
il passaggio del Botafumeiro
e il vento sacro mi ha accarezzato
io quella stanchezza del camino
non la capivo oltre l’arrivo.
Quando dal battello
la torre si è illuminata
e l’oro splendeva
mentre Parigi ci cullava
io non riuscivo
a chiamare il nome di quel profumo.
Quando a Copenaghen
quella sera in piazza centrale
tutti si son messi a ballare il walzer
la pace danzante andava oltre
ed io non vedevo dove sfumassero le note.
Quando siamo usciti dalla chiesa
e tutti gli amici ci hanno applaudito
ripieni di riso e futuro
io non sapevo quale fosse il contorno del mondo.
Quando in quel pub
la birra arrossava il violino e l’arpa
fuori bussava il vento
mentre la pioggia bagnava la nostra festa
io non afferravo quel calore intenso.
Ma poi
ho capito:
tutta quella luce
tutta quella vita
io la conservavo negli occhi
per aspettare il giorno
in cui sei nato
e donarti il racconto
del nostro amore per te.
Perciò figlio mio
son qui a chiederti un unico perdono
di quell’essere distante da chi sono
di quel fiume che non argino
dal voler darti il meglio
e sentirsi già sfuocato fuori campo:
sarò umano
cadendo e stringendoti la mano
mi rialzerò d’ora in poi
per sollevarti al mondo
perchè tu sei quanto
e mentre ti guardo
non c’è più nè come nè quando.
Ciao
fior di mani
naso tondo mondo
occhi per me
luce di mamma
ciao.
Dove sei stato
per quell’altro tempo
in quali astri
hai brillato l’attesa?
Raccontaci:
abbiamo un intero terzo giro
perchè tu ci possa insegnare.
Sei qui per il nostro tutto?
Sarai grande quando curveremo?
Benvenuto:
accomodati tra me e lei,
ti si offre il mignolo:
stringilo forte
perchè ora si inchina il sole
il bosco ti osserva dal cielo
la grotta ha un sussulto
la ruota del presepe risuona
le babbucce raccontano la strada
e la via è illuminata a festa.
Respirarti
è un miracolo
che rinasce quotidiano.
Vieni,
andiamo.
Astro perplesso
appeso al conio
d’un centro distorto:
cupo pensiero,
fiero mosto nero
rivolo sincero.
Distogli gli artigli
dagli aghi per spilli:
nenia l’inerzia,
cogli scorze d’aria
e carezza con veglia
le cure di labbra.
Santi numi
ho perso tutti i paralumi
non posseggo più nessun palmo di contatto
e per questo m’accorgo
d’esser di ogni in ritardo.
Agli amici cari
stringo prati e primule
perchè la primavera porterà splendore
nuova gioia e profumo di rose.
Per tutti indistintamente
salgo sul cielo e soffio stelle
mentre al mio doppio amore
bacio il collo
stringo un sogno
e racconto ogni giorno
la favola del mago pancione.
La gatta di marmo
osserva misteri oltrebosco
poi s’acccovaccia il muso
nel mondo del suo cuscino.
Null’altro chiama la felicità.
Muti, fragili e infuocati
ma raggianti d’ali
navighiamo in braghe di tela
affrontando canti e uragani
spavaldi a petto in fuori
forti dei nostri cuori.
Sotto al corto della coperta
sorridiamo in attesa della festa
stringiamo forte i petali delle mani
cucendo il nostro domani
su nuovi infiniti ripiani.
Mele al tavolino del circolo
bucce di stelle a debito spremute
sopra i tasti di una vecchia Olivetti
l’aria pregna di sbuffi e bestemmie
la scrittura musicale del macinino tritacaffè
la fisarmonica parigina del vecchio Leopoldo
la spazzatura bagnata al margine delle crepe
i grovigli a meraviglia cablati e fritti
gli scialli neri e gli occhi sgranatamente piccoli
denti sbiaditi
pescivendoli in frac
latrati appoggiati sulle zecche dei cani
lo scavalcare del sole d’anemoni
il doppio timbro sulle facciate dei palazzi
le corse soffici sopra il fango
gli sguardi polverosi degli arazzi
il gioco dei gabbiani
le nasse nascoste ai santi.
Gira pertica
osserva
prendi decisioni prendi decisioni prendi decisioni
sottolinea col rosso
passa col rosso
mischiaci il blu sangue reale
prossimo futuro effettivo
che cosa me ne faccio di tutto questo vivere
se non lo posso condividere
che mondo storto
lo raddrizzo col fisher
punta dell’otto rovente
gira in senso anteriore
mastice e stucco
fagotto
entro con marcia trionfale scanzonante
è buio pesto in questa insonnia
non leggo il cartello di quel che sto sognando
ma la casa si allarga
i vestiti si restringono
non so se hai presente i piedi scalzi di Abebe
i primi fiocchi di neve
la scelta di un giusto nome
per una questione di incastri migliore
soffice
cresce il pane
lievita nei tuoi occhi
fragrante ai baci
silenzioso fra i dubbi
con la voglia di danzare
offrire il profumo
mordersi e perdersi
in un giro lento
di accordi senza tempo
in fondo Aprile
è sempre un mese perfetto.
Togli i puà
puah
l’unghietta ora non è perfetta
ma è la più bella
il fiocco laccato
è per un regalo al cielo alzato
il bitume
è quello di un fondamento ad anello
tutto il resto
è un bel giro d’amore e d’affetto.
Tornati dall’altro capo
ora ricominciamo a contare perfetti
piano piano
mentre m’han donato il nuovo puzzle
per ora cerco
combacio
e bacio.
Attento
che il cielo
da queste parti
è ancora fresco.
Finchè c’è luce
puntineremo i sogni.
Stammi dietro.